nella valle sommersa
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Prefazione
  
nella valle sommersa
con impressioni di lettura,
lirica per lirica,
di Carmine Tedeschi
 

Cara Antonietta,

ho letto queste poesie nell’estate metropolitana di una vita adulta, sempre un po’ allucinata, quasi vuota di senso oltre che di speranze e di progetti, soffocata dai conti debitori con il quotidiano e dai fallimenti delle utopie umiliate ed avvilite dal faticoso andare di ogni giorno.

Sono stata anche io bambina, avida di futuro e di altrove, lieve di sogni, allo stesso modo aggrappata alla roccia vestita da Nike e protesa verso il dopo, verso i sorrisi e le vite degli altri, verso il sogno di una vita geniale e infinita come solo il mare e il suo orizzonte ti possono ispirare ma anche vivida e lucente proprio come quelle estati roventi abbacinate e cariche del profumo dei pini della nostra infanzia, nel tempo in cui sembrava che tutto potesse ancora accadere.

Erano giorni di solitudine densa e tenace, la calma e la lentezza della campagna creavano quel tempo un po’ sospeso che sbrigliava la fantasia ed io mi ritrovo accanto a te, alla ricerca continua di significati e di contatti con l’altro, abbarbicata su un ramo di albero di fico o su uno scoglio deserto e con gli occhi vaganti nelle nuvole, bambina che voleva “volare o almeno camminare da sola”, ed invece restava nell’arco di sabbia delle sue impronte a tessere l’animo con un futuro trasparente.

Adulti con “troppi anni”, dal tempo della bellissima, struggente innocenza, abbiamo attraversato l’infanzia come passanti leggeri. Di quanto c’era in quella danza fatta con le onde e con il respiro degli alberi, cosa è rimasto?

Gli orizzonti sono stati chiusi dalle gru e dalle pale meccaniche, il cielo si è ristretto "in un dove senza spazio", in un paesaggio ormai privo di mare e assediato dai confini e siamo rimasti soli a cercare, tra cemento e barriere, varchi liberi allo sguardo mentre gli altri, quelli che vengono dal di là del mare, cercano “approdi abusati”.

Ma chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta? Le parole diventano ascia che scava nell’abisso del cuore e cerca una via d’uscita alla solitudine, si spingono più lontano ancora del volto e della pelle con cui portiamo in giro noi stessi e creano un profondo legame con un altro essere umano.

Oggi mi siedo tranquilla e senza imbarazzo soltanto accanto a chi non mi guarda misurando in un attimo età e censo e potere e giovinezza e soldi che truccano il corpo e confondono, ma continua a leggere nella sua lingua sconosciuta e ha lo stesso mio sguardo innocente e mite di povero che non ha nulla da perdere, nulla da difendere con sbarre di ferro e da offrire ha solo la sua capacità di guardare più lontano, più lontano del bar e dell’ultimo del mese e dello sconto al supermercato.

Attraverso i paroloni vuoti di chi indossa vestiti “di ottima fattura” e baratta in un minuto il dolore per la perdita di una vita umana con il piacere effimero di una partita a golf, incontro sguardi indifesi e stanchi, come i miei, in cui la stanchezza si deposita sul fondo degli occhi e li rende vulnerabili, aperti come una ferita, vittime dell’incuria degli altri.

Quando, alla fine incerta dei viaggi che tentano l’ignoto, si scontrano al di qua del mare con le barricate dei ricchi buoni a fare l’elemosina con i loro rifiuti, cercano il modo di difendere i loro diritti ed incontrano i nostri paesi sventrati, i privilegi e gli abusi che mangiano la terra ed il mare e tolgono respiro agli alberi, i cuori inariditi di chi non crede più in nulla e ci rimettono tutti in discussione, minano le nostre futili certezze e, poveri di tutto, ci offrono funi ed ancore per ritrovare umanità.

Sotto la luna gigantesca e indifferente di questa estate, siamo stati barlumi sopiti di coscienza mai scalfiti dal dubbio di non essere nulla, non la foglia non l’incanto, non il dolore né la resurrezione. Son c’è misurazione sufficiente all’abuso che entra nelle nostre vite, alla corruzione dell’uomo che costruisce palazzi senza vento né sole, alla disperazione di chi cerca approdi ove andare a cominciare a vivere ed incontra solo soprusi resi vecchi dall’uso quotidiano e da una servitù di passaggio che ci rende tutti complici, tutti mai più innocenti.

E tu, piccola, fragile e forte tessitrice di parole te ne stai lì, “in un dove senza spazio, [... ] in questo tempo usato” a sorvegliare “il grado di trasparenza” della nostra “coscienza”, a coltivare quel “fazzoletto” di giardino senza poterti mai fermare, ma vagabonda come lo straniero che cammina per il mondo senza niente altro che un libro sotto il braccio, con le parole antiche nel cuore che proverai a scambiare con suoni di luoghi diversi e lacci spezzati anche a costo di perdersi per sempre.

Perché il poeta non si compra con le lucciole dei soldi, della politica e del potere, il poeta rende assordante il silenzio ottuso e parassita e scava con le parole fino a farti sanguinare il cuore e si allena ad andare ogni giorno, a lasciare la sicurezza degli oggetti, a partire con le stesse valigie di cartone o di spago e di tela di chi attraversa oceani di acqua e di paura per conquistarsi il diritto di essere riconosciuto e chiamato uomo.

E le sue parole trovano piccoli “gusci di noce”, sole accarezzano soldati bambini abbandonati al loro destino di vita non consumata, senza sogni, senza giochi, senza madri né padri, né quell’atroce e assoluto egoismo di bimbi che, al di là del mare, nulla vedono e sanno e capiscono se non la loro assolutezza di esseri umani.

Ma sull’altra sponda, in un paesaggio assediato dall’orizzonte e senza l’aria del mare, quanto vale questa vita senza senso, quanto per noi che parliamo e parliamo di tutto, compunti, senza provare dolore, senza sapere che l’ignoto è pur sempre l’unica via d’uscita per chi parte senza bagaglio e senza più famiglia?

Perciò voglio un tempo per pensare, vuoto di chiacchiere che sollevano la nebbia e pieno di parole che incidono la pietra.

E’sempre “altrove” che si può trovare un “credo”, una fede, una ‘bussola” allo “smarrimento”, nell’orizzonte al di là del mare per chi guarda dalla parte dei lidi pieni di olii e di cemento, nel rifiuto crudele dell’altra sponda che erige “...una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia ” (E. Montale) per chi lascia una casa di fango e di latta, la schiavitù, la fame, la guerra che non riconosce i bambini e li trasforma in piccoli soldati-gusci di noce.

Quando le loro misere e tragiche storie arrivano nei salotti buoni delle nostre città, ci si commuove, ci si indigna, ma alla fine è lo sdegno di un momento, effimero, solo apparenza, buono a far trascorrere il tempo tra una chiacchiera e l’altra. Nessuno di noi reagisce, e continuiamo ogni giorno a perdere pezzi di innocenza, ad ogni naufragio che ci rende più poveri e soli e ci priva di un po’ di umanità.

E’ sempre una questione di confini, poter praticare quella incertezza territoriale che è il luogo della pietà e della grazia: il mare, con il suo senso di assoluto e di infinito, il profumo dell’incenso dei pini acuito dal sole senza scampo dell’estate, vera cifra stilistica dei miei ricordi e delle tue parole e che da piccoli ci facevano sentire eroi di una storia unica ed irripetibile, ci dimostrano che il mondo è fuggevole, l’esistenza è un mistero, l’identità una sciocchezza e che dobbiamo edificare gli uomini e non gli oggetti.

Perciò il desiderio, quello che ci permette di avanzare, di costruire un progetto di vita, di incontrare o di riscoprire l’altro, nasce proprio dalla mancanza, dal vuoto ontologico che ci attira e ci spinge verso l’altrove come piccole Nike senza ali e senza rete.

A che serve dunque il poeta, ascia della nostra coscienza, a noi abituati a comunicare sciocchezze, a noi che rimaniamo in attesa, a specchiarci nelle “pozzanghere” alla ricerca del “sole”, quando esiste invece, più in là, un tono, una luce, un segreto che non vogliamo o non sappiamo cogliere?

Potremo riconoscere la vulnerabilità umana e capire lo splendore della vita solo se ricorderemo con Etty Hillesum che “l’unica cosa che conta nella vita è offrirsi umilmente come campo di battaglia” e allo stesso tempo essere una marginale presenza, un passante distratto, ma non sopportare che la bellezza, che la felicità. Stanotte ho camminato a lungo da sola sulla sabbia, a piedi nudi a cercare conchiglie, e tu sei stata per me il “raggio di luna e l'umida spiaggia” (E. H.) ed io “la pagina bianca e la terra nera per la tua penna” (E. H.); ma il cuore era già andato via, era su una barca in bilico in mezzo al mare, spogliato di tutto, e non so se riuscirà a trovare approdo.

 

Patrizia Frangione
Scheda bibliografica
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Autore Lestingi Antonietta
Titolo nella valle sommersa
Editore Aga Editrice - Alberobello
Prezzo s.p.i.
ISBN 9788895089782
data pub. dicembre 2014
In vendita presso:
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