Nel nostro immaginario è rimasta, la luna di marzo, evocativa di forze capaci di fare il bello e il cattivo tempo, di tenere in bilico le sorti del mese più pazzo dell’anno, ma anche di parte dell’aprile gentile che, per mostrarsi foriero di “nuovo sole” e vestito da “rubacuori”, come recita un’allegra canzone di oltre cinquant’anni fa, deve pazientare finché la famigerata luna non conclude il suo ciclo.

Non il Sole, dunque, potente fonte d’energia per la Terra, ma la Luna, che pure brilla di riflesso, che si rivela solo quando è notte, e la cui presenza pallidamente abbozza di consolare l’assenza dell’Astro che governa le vite. La luna, presente sempre nella sua interezza sul percorso che le leggi naturali tracciano per lei, sa esprimere, e mediare, e spendere di notte in notte, ogni parte di sé. E’ la voce delle donne: una virgola appena, quando s’affaccia dal novilunio; un sussurro che prende forza, e forma, e luce verso il primo, il secondo, il terzo, l’ultimo quarto; al plenilunio risplende offuscando tutte le stelle, i “Soli” lontani. Ma sa che per apparire, deve essere, e per essere, deve divenire, perciò torna a nascondersi, poco a poco, fino a scomparire dalla vista. Non dal cielo.

Così la nostra voce, in questo monologo, si affaccia dal silenzio, dapprima un po’ roca; ma trova il modo di dispiegarsi, confortata dagli echi che l’una rimanda alle altre, attraverso connessioni di atmosfere, sovrapposizioni semantiche, risonanze che amplificano le frequenze e si fanno suono alto e vibrante. Nell’orecchio, i tre timbri incominciano a connotarsi, di pagina in pagina, differenziati: nella lettura, dal carattere di stampa diverso, nell’ascolto, dal fardello di vissuti personali che di tanto in tanto si intersecano. .