Il libro “Donna Peppina Bassi monaca per forza” narra della vicenda quarantennale di una donna monaca di nome donna Peppina Bassi.
Siamo nel 1799, a dieci anni dallo scoppio della Rivoluzione Francese, è stata appena fondata la Repubblica Partenopea. Affascinanti ufficiali francesi in uniforme scorazzano per le vie delle città senza sfuggire agli occhi pudici delle donne, suore comprese: dal monastero benedettino di Massafra, ad esempio, Petronilla Tauro di Castellana fugge con il tenente Stefano Drouget con il quale convola a giuste nozze.
Come Petronilla Tauro, anche donna Peppina Bassi, corista del monastero di S. Benedetto di Conversano, intende sciogliere i voti per poter riguadagnare la sua libertà.
Peppina Bassi è nipote della badessa Rachele Bassi: messa in convento all’età di 6 anni dall’autorità paterna che pensa addirittura di predestinarla al badessato, probabilmente non immagina neanche che le sue vicissitudini coinvolgeranno sovrani, papi, cardinali e vescovi. Donna Peppina Bassi, infatti, dovrà vedersela con la badessa e con le consorelle per tentare di fuggire dalla vita monacale alla quale era stata costretta.
La sua storia, i cui tratti hanno un ché di pittoresco, può rientrare perfettamente in quel tipo di letteratura che affascina un po’ tutti e che ha come tema, appunto, la monacazione forzata: la Gertrude nei “Promessi sposi”, figlia secondogenita costretta a prendere la toga attraverso una costante pressione psicologica dal momento della sua nascita, non è che uno degli esempi più celebri di quella che era ed è stata per molto tempo una pratica di origine medievale che, a lungo andare, ha comportato un grosso ostacolo all’emancipazione femminile.
Oltre alla monacazione forzata, vale la pena ricordare un altro tipo di violenza e costrizione che le donne erano spesso costrette a subire. Si ricordi, a tal proposito, la vicenda di Piccarda Donati, costretta dal fratello Corso, tra il 1283 e il 1293, ad uscire dal convento dell'Ordine delle Clarisse per sposare un ricco rampollo, Rossellino della Tosa.
In tal caso, la storia di Piccarda Donati richiama quel che succedeva quando le monache, appartenenti a importanti famiglie locali, venivano prelevate con la forza dalla vita monastica perché costrette a fare da pedina di scambio nella politica matrimoniale di riappacificazione. Una prassi che era diventata un’usanza consolidata nell’Italia del XVII secolo, rimasta poi parecchio in uso nei secoli a venire.
La legge del Maggiorasco, infatti, che vigeva in tutta Europa, stabiliva che il patrimonio, alla morte del padre, dovesse passare interamente in eredità al primogenito. Gli altri figli, i cosiddetti figli cadetti, erano costretti a mantenersi con le proprie forze attraverso la carriera ecclesiastica o quella militare.
È ovvio che per i figli maschi c’era una maggior possibilità di scelta: essi potevano mettersi al servizio del primogenito, intraprendere il mestiere delle armi, arricchirsi per proprio conto nelle fila della borghesia cittadina o scegliere la carriera ecclesiastica.
Per le donne, invece, non c’era scelta: l’unica strada da intraprendere era quella dei voti e di una vita in convento interamente dedicata alla preghiera. Anche il matrimonio era a volte categoricamente escluso, in quanto la dote da portare allo sposo era spesso di gran lunga maggiore rispetto a quella da versare al convento in caso di monacazione.
Per fare un esempio, stando a quanto stabilito dalle fonti, nella Venezia del XVII secolo, la dote matrimoniale ammontava a 15.000 ducati, mentre il monastero si accontentava anche di 1.200. Sono quindi eloquenti le parole di un Magistrato veneziano che così si esprime: “Quelle che vivono in Monastero come in un deposito (e sottolineo “deposito”) son in numero tale che se fossero libere sarebbe sovvertito l’ordine di tutta la città.”
Si possono infine accennare altri casi, veri e propri drammi della monacazione forzata. Rimanendo nel XVII secolo, la monaca e scrittrice Arcangela Tarabotti, nel suo “Inferno monacale”, sfrutta l’unica libertà di cui ancora dispone, quella di scrivere, per denunciare con forza che il monastero in cui vive è “quel luogo che i parenti presentano alle fanciulle come un paradiso terrestre e che a poco a poco si rivela loro come inferno […] perché privo di speranze di uscire”. Non a caso, a quest’opera si affianca quella che ha per titolo “La tirannide paterna” in cui si denuncia l’assurdità dell’obbligo che i padri impongono alle figlie, destinandole al monastero contro la loro volontà.
Sarebbero tanti altri gli esempi che se ne potrebbero fare ma elencarli tutti toglierebbe spazio alla nostra Peppina Bassi. Per concludere, si pensi ancora a quel conflitto fra stato di estraniamento dal mondo e dagli affetti provocato dalla monacazione forzata, e l’amore, un tema che è trattato in “Lettere portoghesi”, di autore anonimo, una struggente raccolta di lettere scritte con nostalgia da una monaca segregata in un monastero al suo amato in giro per il mondo.
Dal XVII secolo passiamo, infine, all’esempio memorabile narrato ne “La Religieuse” di Denis Diderot, che testimonia come tale condizione femminile persista anche nella Francia prossima alla Rivoluzione, per non parlare poi di Verga che ambienta “Storia di una capinera” in un’Italia meridionale della seconda metà dell’Ottocento ove la monacazione forzata è ancora una tradizione fortemente consolidata.
La condizione femminile, insomma, era drammaticamente afflitta da una insofferenza che, letterariamente parlando, sfocerà in quelli che sono i due capolavori per antonomasia che rifuggono da questa concezione schiavizzante della condizione femminile, provocando scalpore e indignazione fra il pubblico borghese dell’epoca: “Madame Bovary” di Gustave Flaubert e “Casa di bambola” del norvegese Henrik Ibsen.
Ebbene, anche la storia di Peppina Bassi che tra pochissimo sarà raccontata dall’autore del libro, rappresenta una sorta di emblema della lotta contro la corruzione delle autorità precostituite, un inno alla libertà delle donne che non temono di denunciare atteggiamenti corrotti e addirittura peccaminosi. Quando parliamo di autorità ci riferiamo ovviamente alle badesse, coadiuvate dai fidati procuratori, che fanno passare donna Peppina per pazza e libertina.
L’autore del libro, in sostanza, si pone delle domande: Chi è davvero donna Peppina Bassi? Chi è questa donna che urla, si strappa le vesti, inveisce contro le consorelle, che dice di preferire un tugurio piuttosto che vivere nel Monastero di San Benedetto? Questo perché il monastero, a suo dire, è “un luogo pieno di malefatte”, una prigione da cui cercherà in tutti modi di scappare ma senza riuscirvi perché verrà rinchiusa in una cella per essere guardata a vista.
Ma donna Peppina Bassi, si chiede l’autore, è davvero pazza così come vogliono farci intendere o, piuttosto, è soltanto una donna che con coraggio si ribella con tutta sè stessa per potersi riappropriare della propria libertà?
Quando poi donna Peppina Bassi riesce finalmente a fuggire, non le sarà concesso di vivere la sua vita a pieno neanche fuori dalle mura del Monastero vedendosi privata della sua vita per ben due volte.
Ebbene, questo libro, come afferma l’autore, intende restituire un po’ di verità rispolverando i documenti che oltre all’Archivio Segreto del Vaticano si trovano nel nostro Archivio Diocesano di Conversano: ragione in più, quest’ultima, perché la presentazione del libro, questa sera, rientri a buon diritto nel progetto de “La città delle donne”.
Alla base di questo progetto, infatti, c’è la storia e la vita stessa delle donne, prima ancora delle monache, che dal momento in cui giunsero dalla Grecia nel 1266 sotto la guida di Dameta Paleologo, difesero strenuamente la storia plurisecolare del loro microcosmo, la loro piccola città nella città avendo cura di preservarne la memoria avvalendosi della competenza di studiosi e notai.
Lo studio dell’esercizio della giurisdizione badessale a Conversano fino al 1810 ha infatti consentito di immaginare una vera e propria ‘repubblica’ e, quindi, una ‘città’ delle donne che va oltre le mura del monastero cittadino. Ciò significa dare rilevanza non solo all’aspetto storico-documentale ma anche a quello più precipuamente artistico ed intellettuale dell’epoca.
Non dimentichiamo, infatti, che i monasteri non erano solo quei luoghi infernali descritti dalle monache costrette, ma anche luoghi ove le donne potevano coltivare i loro talenti, lo studio, la preghiera, mondi di donne per antonomasia, nei quali l’autorità, come nel caso di S. Benedetto a Conversano, era un’autorità femminile. Ma la storia di donna Peppina Bassi, come ben sappiamo, era tutt’altro.
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