L’avvento delle leggi che regolarono l’eversione della feudalità, imposte dai napoleonidi sui territori dell’ex regno borbonico, non costituì, se non in parte, un atto rivoluzionario capace di sconvolgere dalle radici l’assetto sociale delle popolazioni meridionali. Un assetto che, consolidatosi nei secoli, aveva pur mostrato, specie nella seconda metà del Settecento, un nuovo dinamismo, un emergere graduale ma costante di nuovi ceti, nuovi destini economici e sociali, che andavano modificando il volto, soprattutto, dei grandi e medi centri urbani.
In Puglia in particolare le città costiere come Bari, Barletta, Molfetta, ma anche Monopoli e Mola diventano sedi di nuovo benessere economico, legato ad attività di trasformazione e commercio dei prodotti dell’agricoltura, che consentono la formazione di una solida grande (ma anche piccola e media) borghesia, capace di intraprendere nuove e lucrose strade verso i mercati nazionali e internazionali.
Sicché si può dire che nei maggiori e più dinamici centri pugliesi la feudalità è fortemente indebolita, se non addirittura inesistente, alla vigilia dell’avvento dei Francesi. Non così nei centri minori, nell’entroterra, nelle comunità legate inesorabilmente alla terra e alle scarse risorse che, a prezzo di disumane fatiche, se ne riusciva a ricavare.
Con la legge del 2 agosto 1806 i francesi aboliscono nel Regno di Napoli la feudalità con tutte le sue attribuzioni. Sembrano così realizzarsi ataviche aspirazioni delle popolazioni meridionali, sembrano spezzarsi le catene che tengono oppresso in schiavitù un popolo di braccianti, avvezzi da secoli a fronteggiare a mani nude l’avarizia della terra, il potere del signore feudale, il bisogno costante delle famiglie.
Finalmente le leggi del nuovo Stato impongono l’abolizione dei vincoli feudali, e vi subentra la divisione dei vecchi demani tra gli ex baroni, che ne diventano proprietari, e i comuni, divenuti affidatari di vasti territori destinati ad essere suddivisi in quote da destinare in enfiteusi ai comunisti, ovvero ai cittadini titolati a esercitarvi gli “usi civici” ormai anch’essi aboliti.
Una vera rivoluzione, sulla carta. Ben altrimenti andranno le cose nella realtà delle vicende storiche meridionali. Se la prima fase delle leggi eversive ebbe rapida attuazione, la seconda, ovvero la quotizzazione e assegnazione delle terre ai contadini meno abbienti, si trascinò ben oltre il decennio francese, fino (e oltre) l’unità d’Italia, dando la stura a fenomeni sanguinosi, come le occupazioni delle terre e, non ultimo, il brigantaggio.
Veniva meno così uno dei cardini su cui era stata impostata l’azione legislativa: l’obiettivo di favorire la nascita di una classe di piccoli proprietari capaci di apportare le migliorie e le innovazioni necessarie ad innalzare il tenore di vita generale e, complessivamente, la ricchezza stessa dello Stato.
Accadde che il freno imposto alle Università nel procedere alle quotizzazioni appariva funzionale, ad esempio, allo sfruttamento delle terre demaniali (prima destinate all’uso comune) per adibirle a pascolo, impedendone la divisione e l’affidamento, ovvero la messa a frutto per la semina e le coltivazioni in generale, e del pascolo non hanno bisogno i piccoli contadini, ma i grandi proprietari di mandrie e greggi.
Il contrasto sordo tra i ceti popolari e la nobiltà si arricchì ben presto di altri attori, non secondari, nell’ostacolare l’opera riformatrice delle leggi napoleoniche. Contrariamente a quanto avvenuto in altri territori del vecchio dominio spagnolo, come la Lombardia, l’economia meridionale legata alla terra non subisce nel corso del ’700 sostanziali trasformazioni rispetto al passato. Nel Ducato di Milano la vecchia nobiltà feudale ha convertito i propri interessi economici che, gradualmente, da parassitari hanno assunto la forma di una valida imprenditoria agricola. Il latifondo subisce le trasformazioni necessarie (primo fra tutti il suo frazionamento) a dare impulso da un lato alla crescita della produzione e dell’economia in generale, dall’altra all’affermarsi di una nuova classe sociale borghese legata agli sviluppi dell’agricoltura e dei commerci.
Questo passaggio cruciale da un’economia di sussistenza, oberata da vincoli ormai insostenibili, ad un dinamismo virtuoso non avviene nel Regno di Napoli.
Lo impedisce la stessa fisionomia dell’istituto feudale, che a Napoli, diversamente da Milano, conserva pressoché inalterata la struttura della proprietà baronale. Che magari cambia padrone, ma non viene sostanzialmente toccata nella sua entità territoriale unitaria.
Permane quindi nel Mezzogiorno una classe sociale di grandi possessori di terre che non hanno interesse alle trasformazioni e ai miglioramenti colturali, ostacolando così l’affiorare di una piccola e media borghesia fondiaria che invece si afferma con successo al Nord. Le leggi eversive non riusciranno a scalfire questo stato di cose: dalle riforme del decennio francese trarranno profitto soprattutto coloro che già posseggono un incontrastato potere economico. Con un danno in più per le popolazioni contadine, perché venivano aboliti gli usi civici e con essi i cespiti minimi per il sostentamento dei ceti meno abbienti.
La dialettica tra la sorda resistenza al cambiamento, e anzi la puntigliosa ricerca di ulteriori accaparramenti di beni e servitù da parte dei baroni, e lo sforzo diffuso di mettere in movimento le risorse del territorio, svincolandolo dai vecchi retaggi feudali, trova un punto di sintesi nel contrasto, molto variegato e talvolta aspro, tra nobiltà e comunità locali. Un contenzioso vasto, esteso su tutto il regno, tra feudatari e Comuni, che si trascina da più di un secolo tra lunghi e cavillosi procedimenti giudiziari, tesi a moderare lo strapotere dei baroni.
All’atto della promulgazione delle leggi eversive ancora molte controversie sono pendenti e per porvi fine viene istituita, nel novembre del 1807, una Commissione nel regno di Napoli con la finalità di chiudere rapidamente i contenziosi tra gli ex baroni e le comunità locali, in ossequio alle nuove leggi.
Le controversie riguardano soprattutto la pretesa dei feudatari e degli enti ecclesiastici di riscuotere dazi e decime su terreni demaniali e suoli urbani usurpati nel corso dei decenni ai danni dei Comuni. Con l’arrivo dei francesi l’innumerevole massa di contenziosi particolari, e diffusi capillarmente nel tempo e nello spazio, viene clamorosamente riassorbita in una norma generale e tassativa che mira a sconvolgere l’assetto economico-sociale dello Stato, onde consentire a nuove e più dinamiche forze sociali di assumerne il ruolo di classe dirigente. Il 2 agosto 1806 i francesi aboliscono per legge la feudalità con tutte le sue attribuzioni.
D’altra parte era lecito aspettarsi, da coloro che avevano introdotto i principi di libertà e uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, la mano dura nei confronti di evidenti disparità di status sul piano dei diritti sociali ed economici.
Tuttavia, malgrado le preoccupazioni della vecchia nobiltà, non si tratterà di una vera e propria guerra tra i titolari di antichi (spesso usurpati) diritti feudali e nuovo Stato napoleonico. Il sovrano di Napoli non ha interesse ad inimicarsi il vecchio ceto dirigente: la legge che abolisce la feudalità, lungi dal rivendicare per lo Stato la proprietà della ricchezza immobiliare detenuta dai nobili, li riconosce come legittimi proprietari e stabilisce l’indennizzo a loro favore dei diritti giurisdizionali perduti.
Diritti che la legge trasferisce per delega alle Università, ovvero ai Comuni, che diventano esattori per conto dello Stato.
La successiva legge del 1° settembre 1806 fissa le linee generali per la suddivisione dei demani feudali ed ecclesiastici, stabilendo che i Comuni ripartiscano tra i cittadini i territori di propria competenza, dietro corresponsione di un canone annuo proporzionato al valore delle terre. Il legislatore precisa (con successivo decreto) che nella ripartizione debbano essere preferiti i non possidenti e i possidenti minori.
Malgrado le buone intenzioni del legislatore, le cose andranno diversamente. Chi ha interesse a mantenere i demani comunali in uso per il pascolo (gli ex feudatari e i grandi proprietari terrieri) ostacolerà in tutti i modi la loro divisione e assegnazione da parte dei Comuni. Sicché soltanto una minima parte dei territori verrà quotizzata a vantaggio dei braccianti e dei contadini poveri. In Terra di Bari, ad esempio, poco più del dieci per cento delle terre demaniali viene quotizzato e finalmente diviso, con procedure che, iniziate nel 1809, si concludono ben oltre l’Unità d’Italia.
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