La punteggiatura non è il mio forte

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La punteggiatura non è il mio forte


LA PUNTEGGIATURA NON È IL MIO FORTE (Secop edizioni, 147 pagine, 12 euro) conferma l’ossessione di Federico Lotito per la forma breve, in questo caso per i racconti. Lo avevamo visto esordire con la poesia abitata da “parole che danzavano in punta di piedi”, appena sussurrate, lo ritroviamo alle prese con la pratica orizzontale delle parole, transitando da una scrittura fatta di affondi sintetici ed essenziali ad un’altra che accetta di diluirsi nei connettivi e nei portavoce figurati.

 

Del resto, ne LA GAIA SCIENZA, Nietzsche afferma che non si scrive buona prosa se non sotto gli occhi della poesia, con la consapevolezza di trovarsi al cospetto di una guerra incessante che prevede attimi di sublime riconciliazione.

 

Nascono così i racconti brevi di Federico Lotito, progettati con drammaturgia perfetta, alimentati osmoticamente dal minimalismo americano, orchestrati secondo le partiture di Cormac McCarthy che ha fatto della libertà espressiva dello scrittore il fulcro di tutta la sua attività letteraria.

 

“Scrivere storie mi aiuterà, anche se la punteggiatura non è il mio forte”, scrive Federico Lotito, elevando i punti di sospensione e disperdendoli sulle i che ne sono prive, operando un passaggio sostanziale dalla mancanza di chiarezza, dalle incertezze, dall’approssimazione, dall’essere in bilico, insomma da tutte quelle condizioni graficamente espresse con i punti di sospensione, al chiarimento, alla messa a fuoco di alcuni fondamentali aspetti dell’esistenza: al mettere, per l’appunto, i puntini sulle i.

 

Federico Lotito si libera delle parentesi intese come distanze, scontri, abbandoni, procrastinazioni tra adesso e mai più, un muro tra l’io e il mondo esterno, un filo spinato, una piccola diga. Tra parentesi Federico ha racchiuso la paura della sofferenza che altro non è se non la paura di vivere.

 

Contemporaneamente si assiste alla ipertrofia puntiforme che consegue all’asciugarsi della struttura sintattica. La pulsazione del pensiero accelera, si fa frenetica ma controllata, sottraendo la scrittura all’anemia e alla clorosi del contorcimento sintattico che fa perdere di vista ciò che è essenziale.

 

Il moderno costrutto è un susseguirsi di enunciati brevi che crea quella sorta di “comunismo delle proposizioni”, rendendone quasi impossibile un ordine gerarchico, come afferma il linguista Remo Bassetti. Federico Lotito si spinge a liberare i dialoghi dalla punteggiatura. Questi vengono calati direttamente nel discorso senza intralcio di virgolette, caporali, trattini, così che le voci dei personaggi risultano fuse con quella del narratore, in un corpus unicum.

 

Frequenti anche i discorsi indiretti liberi, l’erlebte rede, il discorso rivissuto di verghiana memoria che passa attraverso la mediazione del soggetto referente. Frequenti anche le riprese anaforiche che danno struttura al discorso mantenendo un legame paritario con tutti gli elementi grammaticali presenti.

 

Per Federico Lotito non esiste distinzione tra l’interpunzione intellettuale e quella affettiva, così come si afferma nella PSICOGRAMMATICA di Maria Montessori; attraverso la punteggiatura Federico fornisce al lettore un manuale interno di istruzioni capace di mostrare senza diaframmi l’identità dei personaggi e non più la loro idea.

 

L’incapacità di Lotito nel mettere i puntini sulle i riflette lo stato di perenne precarietà dell’uomo, personale e lavorativa, che alla fine consiste proprio in questo, nel non riuscire a mettere un punto laddove è necessario, ma accumularne tanti e azzeccarli tutti in fila.

 

Il nostro Autore, nell’età della maturità, dopo diverse sperimentazioni anche teatrali, si sente finalmente libero di scrivere come respira, non curandosi di non essere accettato, di uscire dagli schemi, di ribaltare alcune regole. Così, egli scrive, “è più semplice scrivere”, ribadendo il valore terapeutico della scrittura che è, al pari di uno psicanalista, consente la scarica emozionale catartica, recuperando persino l’angoscia dei pomeriggi d’estate, di quel “meriggiare pallido e assorto” sentendo “con triste meraviglia/com’è tutta la sua vita e il suo travaglio” (Eugenio Montale).

 

Per Federico Lotito non è necessario saper scrivere, basta avere qualcosa da raccontare, secondo il principio del rem tene, verba sequentur. In questo modo qualsiasi storia, anche quella apparentemente più ordinaria e monotona, ha sempre qualcosa di unico.

 

Lo sconvolgimento, lo straordinario rimangono dissimulati tra le pieghe di una solo apparente tranquilla quotidianità.

 

Ogni racconto dei 18 contenuti nella raccolta stupisce il lettore per la diversità dei temi. Ed è proprio la diversità il tema centrale del libro, punto di partenza necessario per comprendere la discriminazione, ciò che è la vera malattia che affligge la moderna umanità.

 

Una narrazione politicamente corretta nell’accezione positiva dei termini, nel senso che inclusione, rispetto, integrazione di tutte le categorie marginalizzate vengono raccontate senza interposizione giudicante da parte dell’autore.

 

“La mia diversità è così lontana dalla normalità del resto del mondo”, dice il protagonista del racconto Mi ascolti, per favore! dove troviamo uno dei pochi punti esclamativi usati dall’Autore, quasi un grido una implorazione disperata.

 

La narrazione di Federico è uno squarciare il velo di Maya che impedisce di vedere davvero il mondo, come avviene ne La sposa, in cui la protagonista indossa sempre “un abito bianco, ma senza velo ormai”, perché vuole che tutti vedano la realtà per quanto mostruosa possa essere, una realtà che spesso viaggia nel sottile confine con la follia.

 

Ora è il velo, ora è il quadro, ora è il treno argento: è questo il fantastico quotidiano alla maniera di Calvino che Federico trasforma nel fantastico dissimulato che percorre e sgrana la trama torbida delle relazioni umane.

 

“Quel quadro rappresentava la loro unica difesa”, una via di fuga, ma anche un punto fermo, un metronomo emozionale a scandire le varie fasi dell’esistenza, persino quando tutto si mescola, si perdono pezzi della propria memoria e resta solo ciò che è essenziale, l’amore che nemmeno l’oblio più profondo riesce a cancellare.

 

In piena economia dal vangelo secondo Carver, Federico Lotito sperimenta tutte le strutture narrative utilizzabili nella costruzione di un racconto, compresa quella circolare nel racconto che non a caso si chiama Il giro, in cui la situazione di partenza si ripresenta, ribaltata, nella conclusione.

 

Frequente la contrapposizione fra uomo e donna, tra il desiderio di tensione verso l’alto di lui e l’essere al contempo terrestre e solare di lei. Coppie liquide, instabili, precarie, in procinto di implodere, costantemente in affanno nella gestione degli affetti e delle emozioni, in balia di una comunicazione spesso insufficiente, rarefatta, viziata, bypassata da silenzi, affidata ad una moltitudine di bottiglie di vetro (vedi il racconto Una vita in bottiglia), “bottiglie affidate al mare per approdare dove il destino le condurrà”.

 

Federico Lotito coglie le varie necessità dei personaggi per cui lascia che si esprimano liberamente nelle loro pulsioni, anche quelle più sfacciate, nei loro sentimenti più indicibili, aderenti alla loro realtà apodittica e apocalittica, delineata con poche, scarne parole.

 

Molti racconti della raccolta si concludono con una clamorosa deflagrazione, una chiusa potente, umoristica in senso pirandelliano, perché forse è la normalità quotidiana a rappresentare la vera follia e questa presa di coscienza fa scattare la molla della ribellione alla realtà.

 

La voce narrante è sempre interna al mondo rappresentato, ricostruisce il filo delle vicende attraverso flashback e flashforward per variare il ritmo della narrazione e renderla più coinvolgente, coerentemente alla voglia di libertà pretesa dall’autore anche sulla gestione della linea del tempo.

 

Il lettore viene proiettato in medias res, spesso ci si ritrova in hall e camere di albergo, su treni, bus, taxi, tram, in sale d’aspetto, riproponendo il topos dei non luoghi di Marc Augè, che “di colpo inghiottono me, le mie fantasie e tutte quelle altre vite”, scrive Federico Lotito in Bus 57. I non luoghi neutralizzano, azzerano rapporti, identità, sono terre di mezzo che accolgono nel momento di smarrimento, che disarticolano l’anima e reificano l’essenza identitaria dell’umanità sacrificandola sull’altare della globalizzazione.

 

Il viaggio in treno assume per Federico i connotati del viaggio verso la conoscenza di sé. Sullo sfondo sale d’aspetto anonime, grigie, stazioni desolate, dove le fragili e dolenti vite dei protagonisti si incontrano e scontrano in un processo dialettico culminante nell’autocoscienza.

 

“La mia vita è sempre stata in sintonia con i treni”, scrive Federico Lotito in Argento treno, non il “bello e orribile mostro” di Carducci nell’Inno a Satana, ma un treno “davvero d’argento, tutto illuminato, lucente, enorme [...] a darmi la speranza di rimettermi in viaggio”. Come ne Il treno ha fischiato di Pirandello, Federico fornisce l’occasione per dare una svolta alla vita.

 

In questi luoghi di nessuno prendono corpo le storie personali di personaggi che, per singolarità e varietà, possono rappresentare tutto lo spettro dell’umano vivere.

 

In Verso casa l’autore scrive “siamo al capolinea”, preannunciando il finecorsa dell’esperienza narrativa. Il protagonista di questo racconto, sceso dal tram, ringrazia “il vizio di guardare per terra” che lo mette al riparo da incidenti. E cos’è questo vizio di guardare per terra se non l’ostinazione a voler restare ancorato all’humus, all’umanità, concetto che già Federico aveva espresso nella poesia Minnie della silloge È PASSATO UN SILENZIO?

 

Riaffiora spesso Federico il poeta con la tensione alla ricerca di spostamenti dal fuori verso dentro, con il suo “maledetto vizio di guardare per terra”, di sentire, esperire, interrogarsi alla ricerca di orientamenti, alla scoperta di regole e grammatiche dell’anima per artigliare il tempo e la memoria, perché “perdere il passato significa perdere il futuro”.

 

Federico Lotito si fa carico, nella performance intima e universale del racconto, del dolore dell’umanità più variegata.

 

Con uno stile fluido, analitico, pacato, razionale, talvolta quasi asettico, utilizzando un lessico medio ma non sciatto, quotidiano, attraverso una sapiente costruzione drammaturgica, avvicina la scrittura alla vita operando una invisibile sutura, monta storie archetipiche che riguardano tutti, una epagoghè, un viaggio dal particolare all’universale che ripropone tutti gli elementi già affrontati nelle precedenti sillogi poetiche: la vocazione per la scrittura, l’esclusione, la lontananza, la solitudine, il senso della morte e dell’amore, la memoria, rivelando rispetto al passato una particolare attenzione a volte ironica, a volte amara, nei confronti della vita.

 

Le sue pagine sono schegge di uno specchio, potenti come tuoni che infrangono vetri e spaventano uccelli; concedono la carezza lenitiva dell’illusione che qualche lacrima possa essere condivisa. Una sorta di barone rampante calviniano alla ricerca di spazi in cui il suo animo straripante possa svilupparsi in pienezza rapito dal sogno di una umanità solidale, sulle tracce di citazioni letterarie sparse in ogni racconto, tra descrizioni e dialoghi, come briciole di Pollicino, in un abbraccio onninclusivo.

 

Come scrive Luca Ricci, “la scrittura non è una carriera, ma un atto di apertura, di disponibilità e perfino di generosità”. E Federico questo lo sa tant’è che all’inizio del libro scrive “ho un’aspirazione: vorrei racchiudere tutta la storia tra due grandi apici”. Non virgolette claustrofobiche, ma apici, piccole ali che raccolgono e sollevano verso il cielo l’esperienza di vita e di scrittura, non confliggendo con punti, virgole e tutto ciò che è terrestre.

Mariella Sivo

Scheda bibliografica
Autore Federico Lotito
Titolo La punteggiatura non è il mio forte
Editore Secop
Prezzo € 12,00
data pub. 10 novembre 2022
EAN 9791280554277
In vendita presso:
Disponibile presso la Libreria Emmaus di Conversano

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