Restauro Cristo Deposto

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Sull’affresco del Cristo deposto, recentemente restaurato (sec. XVII)

1.Il Cristo deposto dell’Isola, affrescato in solitudine senza le accoglienti e pietose braccia della madre, come nelle celebri o ignorate Pietà che s’incastonano lignee o lapidee nelle nicchie delle chiese, o richiamano tenerezza devozionale sugli altari con struggenti dipinti ovvero nelle case con semplici e confortanti copie a stampa, posto a un’altezza di poco superiore al terreno e lasciato esposto alle azioni aggressive dell’ambiente esterno, alle quali peraltro ha resistito pur mostrando i segni dell’usura, ha fatto ipotizzare da alcuni una sua primitiva presenza in un luogo interno annesso al convento successivamente abbattuto. Ipotesi tuttavia non suffragata da alcun riscontro documentario, a meno che non la si voglia sostenere a ogni costo appellandosi e inseguendo improbabili documenti andati perduti.

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Il Nostro, posto all’esterno rivolto a levante verso la città, per chi allora dalla città a piedi, a cavallo o in calesse e oggi in auto, percorre la strada, diventa un richiamo religioso evocativo, direi perfino mediatico “pubblicitario”, a somiglianza dell’affresco virgineo che s’intravede dalla parte opposta nella lunetta sul portone d’ingresso, per indicare cioè il complesso come luogo di devozione per la Vergine e il Cristo morto.

1.1 Il Deposto è il paradigma che segna l’ineluttabile ciclo finale dell’uomo di ogni tempo e di ogni estrazione sociale; un argomento ineludibile che interpella l’uomo, lo interroga, lo tormenta; di conseguenza da questo limite finale discende il senso e il télos che egli vuole dare al suo “dasain” con l’operato di bene o di male. Segmento temporale, ogni deposto è la metafora del panta rei che con uno stridulo e impietoso soffio di voce il Qoèlet definisce “tutto è vanità”.

1.2 Il Deposto dell’Isola richiama i devoti a una statio cimiteriale per così dire rassicurante sia in senso corporale e sia spirituale. Infatti, sollevando la lastra di pietra antistante l’altare quattrocentesco, ora occultata dal tappeto, ci si introduce in un piccolo ipogeo ove sono raccolti i resti di coloro che chiedevano di essere ivi sepolti. Ne citiamo una documentazione: nel 1807 i coniugi di Vagno chiedono in carta legale da 6 grana al re di Napoli Giuseppe Bonaparte che il figlio Leonardo venga seppellito in S. Maria dell’Isola.

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Il luogo devozionale isolano promuoveva anche un incremento sociale, al punto che 20 anni dopo padre Clemente da Noja (Noicattaro) chiede all’Intendente di Bari di istituirvi una scuola privata di leggere, scrivere, aritmetica pratica, geografia locale e catechismo di religione. Resta comunque sempre anche luogo cimiteriale non solo per la comune popolazione, ma anche per religiosi e nobili. È la scelta di essere deposti accanto al Deposto.

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1.3 Il Deposto nella sua solitudine inchioda l’uomo a se stesso: la morte è soltanto sua, sia che ci siano attorno presenze accoglienti e confortanti e sia che sia avvolto da un buio familiare o sociale, come per esempio nella morte dell’“uomo di Altamura”. Una sfida personale con la morte iconizzata nel “Settimo sigillo” di Igmar Bergman.

1.4 Il Deposto salda la morte del credente a quella di Cristo in una comunione promessa e professata nella fede: per il credente è l’uomo-Dio che muore e in tal modo la morte umana viene strappata dal disfacimento e dal suo annegamento nel nulla per divenire dies natalis nell’eternità, incontro gioioso per sempre con il divino Salvatore nelle cui parole ha riposto la sua fede: Chi crede in me, anche se muore vivrà e non morrà in eterno (Gv 11, 25-26).

1.5 Il Deposto nudo echeggia le parole di Giobbe: Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo tornerò in grembo alla terra (Gb 1, 21); nella pietas umana di ogni tempo viene lavato il corpo nudo ed esanime della persona per consegnarlo alla sepoltura, così come storicamente è accaduto a Gesù unto e profumato con mirra e aloe dalle mani premurose delle donne, anche se a questa universale pietà si contrappone la lancinante nudità dei corpi ammassati delle donne e degli uomini consegnati alla terra, alle fosse, dopo l’immediato arrivo dei liberatori nei lager tedeschi.

Insomma questo Cristo deposto, con un’eloquenza superiore alle più vibranti ed elevate parole di filosofia e teologia, parla ancora all’uomo contemporaneo di tutta la storia umana con le sue speranze e disperazioni, dileggi e rispetto, odio e perdono, meditazione e blaterazione populista, e con la sua feroce e perenne violenza di carnefice degli innocenti.

E naturalmente continua a parlare attraverso l’arte, qui e dappertutto.  

 
   

Angelo Fanelli

   

 

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