Le due redazioni del catasto di Conversano
nel 1753 e 1754

 
 
"Incontro con la storia" presenta il volume di  Luigi P. Marangelli
 
Conversano, 11 set. 2019 - Sala Forum Archivio Biblioteca
 
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Le due redazioni del catasto di Conversano
nel 1753 e 1754

 
 
"Incontro con la storia" presenta il volume di  Luigi P. Marangelli
 
Conversano, 11 set. 2019 - Sala Forum Archivio Biblioteca
 

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Delitto d’onore e Matrimonio riparatore nel Novecento
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Introduzione

  
Delitto d’onore e Matrimonio riparatore nel Novecento

L’omicidio del Podestà di Stornara


Il "delitto d'onore" e il "femminicidio" sono reati nei quali è coinvolta la donna come soggetto e come vittima: due facce della stessa medaglia.

Il delitto d'onore aveva una sua peculiarità con regole dettate da un codice... d'onore dai risvolti sintomatici di un periodo storico per le implicazioni morali e sociali. L'onore famigliare era riposto nel comportamento della donna. La vittima è l'uomo che ha sedotto la donna e per tale colpa paga con la vita.

Era previsto un rituale preciso, inderogabile: la sedotta doveva essere l'esecutrice dell'omicidio da effettuarsi in luo­go pubblico e affollato, piazza o via principale. L'onta veni­va così lavata col sangue e la giovane era accolta con tutti gli onori nel contesto famigliare e nella società.

Il femminicidio, invece, ha come vittima la donna che si sottrae al volere dell'uomo che la considera cosa propria.

Il delitto d'onore veniva quasi incoraggiato dalla legi­slazione dell'epoca. Infatti, con l'art. 587 del Codice Penale (19/10/1930), la pena prevista per l'omicida era piuttosto mite: da tre a sette anni.

Dal volgo questo articolo fu interpretato in maniera generica e impropria, ossia applicabile ad ogni omicidio commesso "nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia".

La legge n° 442 del 5 agosto 1981 cancellò quell'obbrobrio perpetuato per oltre cinquanta anni.

Le ragazze che incappavano nell'abbandono da parte del seduttore avevano l'obbligo morale e materiale di ucciderlo, "per lavare l'onore della famiglia con il sangue". Pena la cacciata di casa. Peggio se incinte. L'innocente frutto dell'amore, un'onta incancellabile, era sprezzantemente rifiutato e le ragazze, messe sulla strada, finivano nel casino..., le aspettava il bordello. Esse erano schernite e trattate come puttane e molto difficilmente trovavano un "gonzo disposto a raccogliere gli avanzi di un altro".

Le sposine, il giorno dopo la prima notte nuziale, secondo inveterata consuetudine, dovevano esibire alla suocera il pannolino con le tracce di sangue comprovanti la perduta verginità, offerta in dote... alla famiglia del consorte.

Questa pubblicazione riesuma una delicata e poco cono­sciuta storia d'amore nata a Stornara tra Egidio, un giovin signore, e Luigetta, una fanciulla del popolo, e conclusasi tragicamente ad Orta Nova, il 23 febbraio 1932.

La vicenda, finita in omicidio, suscitò un enorme clamore nelle contrade di Orta Nova e Stornara diffondendosi in tutta la Capitanata, ma non ebbe la risonanza delle cronache giornalistiche dei periodici di Foggia (Popolo Nuovo) e della Gazzetta del Mezzogiorno di Bari per la censura del Regime sulla stampa su fatti di cronaca nera e per di più se coinvolti personaggi fascisti.

Un evento fuori dai canoni del delitto d'onore: l'ucciso non è il seduttore ma il fratello e l'omicida non è la sedotta ma la madre.

Questo delitto denuncia i vari aspetti del tempo sulla condizione femminile come il matrimonio riparatore, la distinzione in classi sociali, il clima politico del regime fascista, la prepotenza dei potenti sui deboli e il sottile odore di antifascismo degli avvocati socialisti della difesa dell'omicida che si contrapponevano ad avvocati fascisti della parte civile che furono tra i fondatori del Movimento fascista dai tempi di San Sepolcro e noti mazzieri che assursero a posti di rilievo, come Caradonna, nel Gran Consiglio.

Nella relazione verbalizzata del maresciallo di Stornara si legge che la famiglia Farina, quasi riunita in assemblea, avrebbe prescelto per l'esecuzione la Incoronata Sciarrillo, perché, trattandosi di una tisica dai giorni contati che sarebbe morta senza neppure espiare la pena.

Val la pena ricordare la storia emblematica di Luigetta Farina per offrire alle nuove generazioni una riflessione sulla condizione della donna nei tempi passati.

Ma mica tanto remoti.

Luigi P. Marangelli 
Scheda bibliografica
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Autore Luigi P. Marangelli
Titolo Delitto d’onore e Matrimonio riparatore nel Novecento
Editore A.G.A. Alberobello
Prezzo s.p.i.
data pub. giugno 2019
In vendita presso:
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Le due redazioni del catasto di Conversano nel 1753 e 1754 
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Introduzione

  
Le due redazioni del catasto di Conversano nel 1753 e 1754
Collana Crescamus 27

I Catasti onciari, ordinati nel 1740 da Carlo di Borbone re delle due Sicilie, si proponevano di uniformare il sistema contributivo nel regno di Napoli con una equa distribuzione del carico fiscale tra tutte le fasce di contribuenti. A tal proposito, nel generale compiacimento, fu accolto il concordato con la Santa Sede del 1741 con cui si stabiliva che, per la prima volta, gli enti ecclesiastici erano obbligati alla tassazione sui beni, sia pure con lo sconto del 50% sull’imponibile. Un grande merito del catasto carolino.

Esso costituisce non solo una ricognizione dei beni, case, terreni, animali e mutui attivi e passivi, ma una descrizione dei nuclei componenti i fuochi, abitanti, forestieri, ecclesiastici ed enti religiosi. Ci danno un quadro economico ma anche sociale ossia biografico, edilizio, religioso, topografico, toponomastico che tratteggiano il volto delle città nel ‘700. Rappresentano una fonte preziosa per la storia economica e sociale delle città del Regno nel secolo XVIII. è espressamente manifestata la volontà di sollevare i poveri da gravami fiscali eccessivi. I catasti carolini erano detti onciari perché, inopinatamente, la rendita imponibile stimata in ducati, moneta corrente, era tradotta in once, una antica moneta non più in uso. Anche se l’oncia era stata utilizzata già nei catasti “a battaglione” 1 . La contribuzione fiscale all’epoca era praticata a gabella, dazio minuto e tassa sui beni. 

In conformità alle istruzioni, deve essere compilato un librone detto il “general catasto” con le varie categorie di contribuenti riportanti le partite catastali ed un consuntivo finale da depositare presso l’Università delle città, e copia inviata alla Regia Camera della Sommaria con tutti gli altri volumi. Annualmente, poi, venivano redatti i “catastini” per aggiornamenti sulle variazioni occorse.

Purtroppo tutti i documenti esistenti presso il Comune di Conversano sono stati distrutti in occasione dell’incendio del Municipio nella rivolta popolare del 20 maggio 1886, e, tra essi, l’onciario carolino pubblicato il 17 ottobre 1754, a Conversano, nella illusoria convinzione di sfuggire alle tasse in futuro. 

Nella compilazione dei catasti si configurano reiterati tentativi dei contribuenti di ridurre il prelievo fiscale con tutti i mezzi leciti o illeciti a partire da “rivele” mendaci. Tra i sotterfugi più in voga vi erano quelli di “far leva” su apprezzatori e periti per sottostimare misure e rendite dei possessi o occultare beni e quant’altro poteva servire a ridurre il carico fiscale come il ricorso a mutui con enti ecclesiastici che beneficiavano di sconti. Un vero e proprio sistema di finanziamento precursore di quello oggi gestito dalle banche.

Presso l’Archivio di Stato di Bari è conservata una copia del general catasto di Conversano, compilato negli anni 1750-1753, che è infarcita di squarciafogli incollati alle partite catastali e di annotazioni ai margini con diversa stima delle misure e rendite. Un guazzabuglio di partite catastali di difficile se non impossibile trascrizione e pubblicazione. Ma anche lacunoso, privo di intere ed importanti parti come le partite dei deputati del catasto e della categoria dei forestieri (Polignano), la collettiva generale e quella delle once (bilancio consuntivo) delle entrate ed uscite (pesi) dell’Università e cosa più rilevante la tassazione a cui venivano assoggettati i contribuenti. La sua provenienza non è accertata, ma sicuramente non era tra le carte nel Municipio nel 1886: sarebbe stato bruciato. Esso è stato utilizzato per la compilazione del catasto del 1754 come brogliaccio e verosimilmente per compilare il provvisorio del 1814.

Ci siamo, quindi, risolti a consultare la copia esistente nell’Archivio di Stato di Napoli, nella speranza che fosse utilizzabile per una trascrizione e analisi critica delle condizioni di Conversano nel ‘700.

Il nostro impegno è stato premiato per le sorprese di grossa rilevanza storica nascoste nei manoscritti della Sommaria. Sotto il nome di “Catasto onciario di Conversano” sono compresi undici massicci volumi consistenti in atti preliminari, libro dell’apprezzo, due volumi di squarci di campagna, sei di rivele e il general catasto. Gli aspetti di grossa rilevanza storica, sono negli Atti preliminari, Volume di gravami e nello Stato delle anime del 1753, tutti inediti, non reperibili in altri archivi. Dagli Atti preliminari, solitamente trascurati dagli studiosi, apprendiamo che la compilazione del catasto a Conversano ha avuto un iter molto travagliato. Essi avrebbero dovuto limitarsi ad attuare le incombenze burocratiche dettate nelle Istruzioni dell’editto del Re del 1741 che riportano dettagliatamente le modalità di compilazione del catasto arricchite da apposita modulistica.

A Conversano, il percorso ebbe inizio nove anni dopo, il 15 ottobre 1750, con la nomina dei deputati del catasto, dei rappresentanti dei tre ceti, dei periti, ed emanazione di bandi nelle città vicine per comunicare ai possessori di beni in territorio di Conversano l’obbligo di presentare le rivele (dichiarazioni dei redditi). Indi si procedeva all’apprezzo. Dopo la discussione delle rivele con gli apprezzi si compilava il “general catasto”, da pubblicare nella pubblica piazza. 

Andando avanti nella lettura degli Atti preliminari scopriamo importanti novità che danno un rilievo storico-sociale inedito nella storia di Conversano e, forse, del Regno di Napoli. Vi si annidano copie di verbali comprovanti gravi decisioni di Re Carlo a favore della plebe contro i ricchi.

è emersa, infatti, una contesa tra poveri e benestanti di non poco conto, tenuto presente che la città è sede di contea soggetta a regime feudale, sede vescovile dal secolo IV e conta oltre 5500 abitanti. Con i conti Acquaviva d’Aragona ha avuto un ruolo determinante nel governo della Puglia agli ordini del re di turno.

La popolazione denuncia una «scandalosa convenzione» tra periti e benestanti, finalizzata a sottostimare beni e rendite, ordita da un notabile d’eccezione, addirittura un canonico di famiglia di alto lignaggio, e da vari deputati addetti alla compilazione del catasto non solo del I° ceto. Le denunce sono suffragate dalla Declaratio notarile di un perito che fa nomi e cognomi dei fedifraghi. La conseguenza più immediata della macchinazione è che non si raggiunge il “pieno” (importo totale) per sostenere le spese comunitarie dell’Università riversandole in gran parte sui poveri con l’odiata gabella della farina.

Che fa Re Carlo di Borbone? Siamo nel secolo dei lumi. Senza mezzi termini dà ragione al popolo. Dopo aver destituito i notabili compilatori, responsabili del misfatto, ordina la revisione con riapprezzo. Il catasto pubblicato nel 1753, conservato a Bari, è annullato e il suo rifacimento demandato a periti e deputati da eleggere con nuove elezioni in pubblico parlamento. Vanno rifatte le stime delle rendite di terreni, animali e derrate poiché le precedenti erano “troppo basse”. Le spese sono addebitate ai responsabili della tentata maxi evasione.

Un fatto senza precedenti che pone Conversano in un contesto sociale di primo ordine. Infatti, nella pur vasta pubblicistica non si rileva analogo episodio occorso in altre Università, ad eccezione di piccole scaramucce dovute a ricorsi contro feudatari. Nel Volume di gravami emerge la contrapposizione dei colpiti dal riapprezzo che indicano come autori della denuncia della “scandalosa convenzione” «alcuni malcontenti della plebe che si sono fatti eleggere periti per il riapprezzo». I loro nomi sono negli Atti preliminari.

Altre diatribe secolari sono quelle sul possesso territoriale tra Polignano, Castellana, Mola e Turi contro Conversano. Nella controversia tra Mola e Conversano 2 ,  alla lunga la spunterà Mola. Nel catasto in regime a battaglione del 1627, conservato presso l’Archivio Capitolare di Conversano si riscontrano circa 500 partite di cittadini molesi con beni in territorio di Conversano accatastati in contumacia.

Ma la chiusura della compilazione del general catasto tarda per le contrapposizioni tra le diverse fazioni di eletti e deputati facilmente individuabili. Un dispaccio di Carlo di Borbone ordina prima la traduzione di sindaco e deputati di Conversano presso la Regia Dogana di Foggia ove dovranno essere trattenuti, a loro spese, fino al termine delle operazioni di completamento del general catasto fissate entro il termine di agosto del 1754 e poi l’invio a Conversano di Carlo Curti, “sindaco” della Regia Dogana di Foggia, per captis pignoribus vel captura persona, dei due sindaci di Conversano (del 1753 e 1754). Il catasto viene completato da Carlo Curti e pubblicato con enorme ritardo il 17 ottobre 1754 a Conversano e, quindi, inviato, unitamente a tutti i volumi, alla Regia Camera della Sommaria il 22 ottobre successivo. 

Il rifacimento del libro del catasto ha, tuttavia, rimediato solo in parte all’ingiustizia in danno dei poveri poiché, per il 1754, allo scopo di raggiungere il “pieno” si è lasciata la gabella della farina ridotta del 50%. Che pur non è di poco conto.
Nel nostro lavoro abbiamo esteso lo studio della contribuzione fiscale a quella dopo l’unificazione utilizzando le opportune note dell’arch. Sante Simone, che lo connotano di una inaspettata vena di meridionalismo, inserite nelle Memorie istoriche di G.A. Tarsia Morisco 3 .

Questa pubblicazione ha caratteristiche che ne fanno un lavoro utile per studiosi e non solo. Gli aspetti sociali, economici ecc., infatti, sono esposti analizzando e confrontando le singole categorie con le analoghe di altri onciari delle Università di Capitanata, Terra di Bari e Terra d’Otranto 4 . Altrimenti, come già detto, si sarebbero persi aspetti importantissimi che avrebbero dissipato tutta la loro peculiarità. Come la distribuzione dei beni, le donne o fanciulle in capillis, i bracciali che hanno una interpretazione diversa nelle Università.

In genere i libri dei catasti delle Università pubblicati si attengono alla descrizione degli aspetti che caratterizzano la città senza alcun confronto con le altre.

Il nostro lavoro agevola la ricerca genealogica, resa possibile da un indice per cognomi di persone, considerato che nei manoscritti dell’epoca le partite catastali seguono i nomi propri dei capifuoco. 

Numerose le immagini di palazzi, case d’epoca, chiese, chiesette rurali, masserie, laghi che danno un’efficace connotazione alla città.   

L’impostazione grafica è curata in modo da agevolare le ricerche di ogni tipo: storico, economico, sociale, lessicale e genealogico.

Abbiamo lasciato i termini come compaiono nel manoscritto poiché rappresentano una precisa volontà di affermare la propria identità, “la conversanesità”, anche di fronte a «Sua Maestà il Re (che Dio guardi)» al quale il manoscritto è indirizzato.

Molti capifuoco di Mola sono individuati anche con il soprannome che esprime una caratteristica personale. Si evidenziavano, senza peli sulla lingua, le disavventure coniugali, le preferenze sessuali, la scarsità di comprendonio, l’eleganza nel vestire di qualche sacerdote. Non è esclusa una dose di divertito sarcasmo e dileggio tipico del conversanese. Basta scorrere la categoria e se ne trovano di gustosi.  

L’opera, per contenere il costo, è suddivisa in due parti. La prima in un volume che include tabelle e studi comparativi con altre città. La seconda in un DVD che contiene la trascrizione del manoscritto conservato nella Sala catasti dell’Archivio di Stato di Napoli. I nomi ricorrenti sono in gran parte quelli degli attuali conversanesi, di molti molesi, castellanesi, polignanesi, putignanesi e rutiglianesi: sono i loro antenati.

Non si ha notizia di città con popolazione rilevante che hanno pubblicato il catasto carolino a causa dell’enorme mole di lavoro. Sforzo titanico che richiede tempi lunghi, certo non ripagabile economicamente.

I conversanesi possono essere fieri della loro storia e della loro identità, del glorioso passato che li vede sempre in prima linea nell’attuazione di idee innovative tendenti a liberarsi dal giogo dei regnanti con lotte politiche e sociali. 


1  Archivio Capitolare di Conversano, Catasto di Conversano del 1627.

2  ASF, Dogana delle pecore di Puglia, Controversia tra Mola di Bari e Conversano sulla determinazione dei confini territoriali delle contrade S. Marco, Pozzovivo e Spinazzo, serie II, busta 279, fascicolo 6396, 1754-1755, cc. 28.

3 G.A. Tarsia Morisco Memorie istoriche della città di Conversano, a cura di A. Fanelli e V. Perillo, Note di S. Simone S3, S4, p, 163-165.

4  Palumbo-Poli-Spedicato, a cura di G. Poli, cit, pp. 160–166.  

Luigi P. Marangelli 
Scheda bibliografica
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Autore Luigi P. Marangelli
Titolo Le due redazioni del catasto di Conversano nel 1753 e 1754
Editore A.G.A. Alberobello
Prezzo s.p.i.
data pub. maggio 2019
ISBN 978-88-9355-117-5
In vendita presso:
Emmaus - Conversano 
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Donna Peppina Bassi monaca per forza
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Presentazione

  
Donna Peppina Bassi monaca per forza
Il ruolo dei Re di Napoli, Papi, Cardinali, Vescovi, Badesse nella quarantennale vicenda

Il libro “Donna Peppina Bassi monaca per forza” narra della vicenda quarantennale di una donna monaca di nome donna Peppina Bassi.

Siamo nel 1799, a dieci anni dallo scoppio della Rivoluzione Francese, è stata appena fondata la Repubblica Partenopea. Affascinanti ufficiali francesi in uniforme scorazzano per le vie delle città senza sfuggire agli occhi pudici delle donne, suore comprese: dal monastero benedettino di Massafra, ad esempio, Petronilla Tauro di Castellana fugge con il tenente Stefano Drouget con il quale convola a giuste nozze.

Come Petronilla Tauro, anche donna Peppina Bassi, corista del monastero di S. Benedetto di Conversano, intende sciogliere i voti per poter riguadagnare la sua libertà.

Peppina Bassi è nipote della badessa Rachele Bassi: messa in convento all’età di 6 anni dall’autorità paterna che pensa addirittura di predestinarla al badessato, probabilmente non immagina neanche che le sue vicissitudini coinvolgeranno sovrani, papi, cardinali e vescovi. Donna Peppina Bassi, infatti, dovrà vedersela con la badessa e con le consorelle per tentare di fuggire dalla vita monacale alla quale era stata costretta.

La sua storia, i cui tratti hanno un ché di pittoresco, può rientrare perfettamente in quel tipo di letteratura che affascina un po’ tutti e che ha come tema, appunto, la monacazione forzata: la Gertrude nei “Promessi sposi”, figlia secondogenita costretta a prendere la toga attraverso una costante pressione psicologica dal momento della sua nascita, non è che uno degli esempi più celebri di quella che era ed è stata per molto tempo una pratica di origine medievale che, a lungo andare, ha comportato un grosso ostacolo all’emancipazione femminile.
 
Oltre alla monacazione forzata, vale la pena ricordare un altro tipo di violenza e costrizione che le donne erano spesso costrette a subire. Si ricordi, a tal proposito, la vicenda di Piccarda Donati, costretta dal fratello Corso, tra il 1283 e il 1293, ad uscire dal convento dell'Ordine delle Clarisse per sposare un ricco rampollo, Rossellino della Tosa.

In tal caso, la storia di Piccarda Donati richiama quel che succedeva quando le monache, appartenenti a importanti famiglie locali, venivano prelevate con la forza dalla vita monastica perché costrette a fare da pedina di scambio nella politica matrimoniale di riappacificazione. Una prassi che era diventata un’usanza consolidata nell’Italia del XVII secolo, rimasta poi parecchio in uso nei secoli a venire.

La legge del Maggiorasco, infatti, che vigeva in tutta Europa, stabiliva che il patrimonio, alla morte del padre, dovesse passare interamente in eredità al primogenito. Gli altri figli, i cosiddetti figli cadetti, erano costretti a mantenersi con le proprie forze attraverso la carriera ecclesiastica o quella militare.
È ovvio che per i figli maschi c’era una maggior possibilità di scelta: essi potevano mettersi al servizio del primogenito, intraprendere il mestiere delle armi, arricchirsi per proprio conto nelle fila della borghesia cittadina o scegliere la carriera ecclesiastica.

Per le donne, invece, non c’era scelta: l’unica strada da intraprendere era quella dei voti e di una vita in convento interamente dedicata alla preghiera. Anche il matrimonio era a volte categoricamente escluso, in quanto la dote da portare allo sposo era spesso di gran lunga maggiore rispetto a quella da versare al convento in caso di monacazione.

Per fare un esempio, stando a quanto stabilito dalle fonti, nella Venezia del XVII secolo, la dote matrimoniale ammontava a 15.000 ducati, mentre il monastero si accontentava anche di 1.200. Sono quindi eloquenti le parole di un Magistrato veneziano che così si esprime: “Quelle che vivono in Monastero come in un deposito (e sottolineo “deposito”) son in numero tale che se fossero libere sarebbe sovvertito l’ordine di tutta la città.”

Si possono infine accennare altri casi, veri e propri drammi della monacazione forzata. Rimanendo nel XVII secolo, la monaca e scrittrice Arcangela Tarabotti, nel suo “Inferno monacale”, sfrutta l’unica libertà di cui ancora dispone, quella di scrivere, per denunciare con forza che il monastero in cui vive è “quel luogo che i parenti presentano alle fanciulle come un paradiso terrestre e che a poco a poco si rivela loro come inferno […] perché privo di speranze di uscire”. Non a caso, a quest’opera si affianca quella che ha per titolo “La tirannide paterna” in cui si denuncia l’assurdità dell’obbligo che i padri impongono alle figlie, destinandole al monastero contro la loro volontà.

Sarebbero tanti altri gli esempi che se ne potrebbero fare ma elencarli tutti toglierebbe spazio alla nostra Peppina Bassi. Per concludere, si pensi ancora a quel conflitto fra  stato di estraniamento dal mondo e dagli affetti provocato dalla monacazione forzata, e l’amore, un tema che è trattato in “Lettere portoghesi”, di autore anonimo, una struggente raccolta di lettere scritte con nostalgia da una monaca segregata in un monastero al suo amato in giro per il mondo.

Dal XVII secolo passiamo, infine, all’esempio memorabile narrato ne “La Religieuse” di Denis Diderot, che testimonia come tale condizione femminile persista anche nella Francia prossima alla Rivoluzione, per non parlare poi di Verga che ambienta “Storia di una capinera” in un’Italia meridionale della seconda metà dell’Ottocento ove la monacazione forzata è ancora una tradizione fortemente consolidata.

La condizione femminile, insomma, era drammaticamente afflitta da una insofferenza che, letterariamente parlando, sfocerà in quelli che sono i due capolavori per antonomasia che rifuggono da questa concezione schiavizzante della condizione femminile, provocando scalpore e indignazione fra il pubblico borghese dell’epoca: “Madame Bovary” di Gustave Flaubert e “Casa di bambola” del norvegese Henrik Ibsen.

Ebbene, anche la storia di Peppina Bassi che tra pochissimo sarà raccontata dall’autore del libro, rappresenta una sorta di emblema della lotta contro la corruzione delle autorità precostituite, un inno alla libertà delle donne che non temono di denunciare atteggiamenti corrotti e addirittura peccaminosi. Quando parliamo di autorità ci riferiamo ovviamente alle badesse, coadiuvate dai fidati procuratori, che fanno passare donna Peppina per pazza e libertina.

L’autore del libro, in sostanza, si pone delle domande: Chi è davvero donna Peppina Bassi? Chi è questa donna che urla, si strappa le vesti, inveisce contro le consorelle, che dice di preferire un tugurio piuttosto che vivere nel Monastero di San Benedetto? Questo perché il monastero, a suo dire, è “un luogo pieno di malefatte”, una prigione da cui cercherà in tutti modi di scappare ma senza riuscirvi perché verrà rinchiusa in una cella per essere guardata a vista.

Ma donna Peppina Bassi, si chiede l’autore, è davvero pazza così come vogliono farci intendere o, piuttosto, è soltanto una donna che con coraggio si ribella con tutta sè stessa per potersi riappropriare della propria libertà?

Quando poi donna Peppina Bassi riesce finalmente a fuggire, non le sarà concesso di vivere la sua vita a pieno neanche fuori dalle mura del Monastero vedendosi privata della sua vita per  ben due volte.

Ebbene, questo libro, come afferma l’autore, intende restituire un po’ di verità rispolverando i documenti che oltre all’Archivio Segreto del Vaticano si trovano nel nostro Archivio Diocesano di Conversano: ragione in più, quest’ultima, perché la presentazione del libro, questa sera, rientri a buon diritto nel progetto de “La città delle donne”.

Alla base di questo progetto, infatti, c’è la storia e la vita stessa delle donne, prima ancora delle monache, che dal momento in cui giunsero dalla Grecia nel 1266 sotto la guida di Dameta Paleologo, difesero strenuamente la storia plurisecolare del loro microcosmo, la loro piccola città nella città avendo cura di preservarne la memoria avvalendosi della competenza di studiosi e notai.

Lo studio dell’esercizio della giurisdizione badessale a Conversano fino al 1810 ha infatti consentito di immaginare una vera e propria ‘repubblica’ e, quindi, una ‘città’ delle donne che va oltre le mura del monastero cittadino. Ciò significa dare rilevanza non solo all’aspetto storico-documentale ma anche a quello più precipuamente artistico ed intellettuale dell’epoca.  

Non dimentichiamo, infatti, che i monasteri non erano solo quei luoghi infernali descritti dalle monache costrette, ma anche luoghi ove le donne potevano coltivare i loro talenti, lo studio, la preghiera, mondi di donne per antonomasia, nei quali l’autorità, come nel caso di S. Benedetto a Conversano, era un’autorità femminile. Ma la storia di donna Peppina Bassi, come ben sappiamo, era tutt’altro.

 

dottoressa Rosaria Colaleo

 

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Recensione

  
Donna Peppina Bassi monaca per forza
Il ruolo dei Re di Napoli, Papi, Cardinali, Vescovi, Badesse nella quarantennale vicenda

Donne di questi e d’altri tempi
Bufera nel Real Monastero di San Benedetto di Conversano
La monaca donna Peppina Bassi fugge per i tetti dal Chiostro

Agli inizi del 1799 il generale Jean Championnet fonda la Repubblica Partenopea. Nei territori annessi si affacciano i vagiti dei princìpi della rivoluzione francese di dieci anni prima. A Conversano vengono abbattute le insegne comitali e badessali. Gli ufficiali francesi scorazzano per le città e hanno libero accesso ai monasteri in barba alla clausura. Con le belle e sgargianti divise e l’imponente statura fanno sognare le suorine. Dal monastero benedettino di Massafra suor Petronilla Tauro di Castellana fugge con il tenente Stefano Drouget. Ottiene lo scioglimento dei voti per consentirle di convolare a giuste nozze.
Nel monastero benedettino di Conversano scoppia un caso analogo. Quello della corista donna Peppina Bassi che alla stregua di donna Petronilla vuole la libertà di disporre del proprio futuro fuori dal Chiostro. è una bella donna intelligente e dai fermi propositi. Sono coinvolti nella controversa quarantennale vicenda Re, Papi, Cardinali e Vescovi. E non sono di poco conto: re di Napoli Giuseppe Napoleone, Gioacchino Murat e Ferdinando di Borbone; papa Leone XII, Pio VIII, Gregorio XVI; cardinali Odescalchi, Sala, Giustiniani, Patrizi e Ottini. Arcivescovo mons. Clary di Bari. Vescovo Contenisi, De Gemmis, Carelli, de Simone.
Ha combattuto prima per uscire dal monastero contro l’autorità paterna e quella delle badesse, tra le quali donna Rachele Bassi sua zia. Poi, per rientrare a suon di rescritti cardinalizi, e contro la corruzione orchestrata dalla badessa di turno con contorno di procuratori al suo soldo che avevano il cordone della borsa della rendita del monastero (12000 ducati annui) come da lettere tra i legali delle badesse.
Entra in convento all’età di 6 anni e nel 1785 veste la tonaca. Dal padre Domenico era destinata, come la precedente Giuseppa, agli inizi del ‘700 e Rachele agli inizi dell’800 al badessato. Ma subito si è mostrata insofferente alla clausura.
Ai primi dell’Ottocento donna Peppina esprime il desiderio di abbandonare la vita monastica seguendo l’iter del caso come donna Petronilla. Ma trova sulla sua strada le badesse zia Rachele e donna Aurora Accolti Gil.
Il monastero è Abbazia Nullius ossia con giurisdizione quasi vescovile dipendente direttamente dalla Santa Sede che nomina un vescovo delegato apostolico. Le suggeriscono di presentare l’idonea istanza al vescovo delegato Contenisi in occasione della prossima visita. Passa il tempo e del vescovo neppure l’ombra. È una presa in giro. Al che comincia ad irritarsi.
Di una straordinaria capacità inventiva che fa leva su una profonda conoscenza dell’animo umano, ne combina di cotte e di crude. Cosa fa? Minaccia di uccidersi e di uccidere le consorelle che la disapprovano. Afferma che preferirebbe vivere in un tugurio e fare la serva piuttosto che rimanere nel monastero. Invoca il diavolo invitandolo a prendersela con sé. Sfrutta l’incarico di cellelaria per somministrare ai pasti delle consorelle vino aceto. All’ordine della badessa zia Rachele (subentrata a donna Aurora Accolti Gil dal 1804 al 1807) di restituire le chiavi della cantina, gliele getta in faccia. Ricorre a bestemmie blasfeme irripetibili contro Cristo. Adotta, insomma, la strategia di essere cacciata per eresia e scomunicata. Ma non c’è verso. Le attribuiscono la patente di pazza come d’uopo a chi non si adegua all’andazzo dei tempi e li precorre. Tenta di uscirsene alla chetichella dalla porta ma viene braccata e a viva forza rinchiusa nella cella dei cento occhi guardata a vista. Si dispera, sveste la tonaca, rifiuta il cibo, urla di notte disturbando la quiete notturna delle benedettine. Niente da fare, fatica sprecata.
Scruta fuori della gabbia e approfittando di un ritiro delle consorelle in occasione della festa della Pentecoste, corre sui tetti del monastero e si butta, a sprezzo del pericolo, nell’attiguo monastero delle clarisse. È il martedì di Pentecoste del 27 maggio1806. Da questo poi ne esce poco dopo il rifiuto paterno di accoglierla in casa. Fa istanza al re Giuseppe Napoleone di poter ritornare nel monastero dopo che la badessa di turno Aurora Accolti Gil rifiuta il rientro. Rimasta fuori dal convento donna Peppina si mette con l’ufficiale francese andando a convivere in una casa nel Casalvecchio. Il 2 maggio 1810, Gioacchino Murat decreta l’abbattimento del nullius con il Deleatur Monstrum Apuliae. La coincidenza delle date fa pensare che la pessima opinione del re era dovuta alla crudeltà delle monache nei riguardi della consorella Peppina Bassi.   
Prima “pazza” e poi “libertina”
Dalla dettagliata e inedita “Memoria della Popolazione” (?) alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari apprendiamo che donna Peppina, datasi al “libertinaggio” convive con il tenente francese per due anni e che «l’ha resa madre»; poi con un conversanese per dieci anni e, rimasta sola in una zona malfamata del Casalvecchio subisce di notte l’aggressione di un noto delinquente, che tenta di derubarla e stuprarla. La salva l’intervento di una guardia che, accorso alle sue grida, cattura il malvivente.
Passano ventuno anni e donna Peppina ormai avanti con gli anni e sola poiché i genitori sono morti sente il richiamo di una vita spirituale. Accusa il peso delle sue disavventure. La vita nel sociale non è stata come si aspettava: l’ambiente gretto del tempo non le risparmiava giudizi poco benevoli per la sua condotta “libertina”. Vuole tornare in convento ove ci sono i ricordi giovanili e consorelle coetanee che la comprendono e la vogliono, compresa la sorella suor Cherubina. La badessa la rifiuta. Inutilmente passa intere notti nell’atrio del convento. Donna Peppina fa istanza al re Ferdinando di Borbone che ordina sia accolta nel monastero.
Anche l’istanza al Papa sortisce lo stesso effetto: deve essere accolta dalle consorelle come stabilisce la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari cui il papa Gregorio XVI ha demandato la causa. Non dissimile il parere del vescovo mons. De Simone e dell’arcivescovo di Bari mons. Clary: le monache debbono accogliere la consorella pentita che chiede di poter ritornare nel Chiostro in cui ha professato implorando il perdono e prostrandosi ai piedi del vescovo di Conversano mons. De Simone, il don Abbondio che in quegli anni sta uscendo dalla penna del Manzoni.  
Le benedettine, insensibili, in alternativa al rientro propongono che le sia restituita la dote di 600 ducati e se ne stia nel secolo. Temono per la propria vita e di essere… contaminate.
Malversazioni, corruzione e maliziose voglie
Con estrema durezza dirige le operazioni contro donna Peppina, la badessa Eleonora Manuzzi che incarica due canonici, tra i più spregiudicati, per la soluzione della controversia. Emergono traffichini di ogni risma, un “Avvocato” di straordinarie capacità di dirimere controversie contro persino il Pontefice.
Dal canonico Rondanini difensore di donna Peppina e dalla depositaria delle rendite del monastero suor Cherubina Bassi (sorella di donna Peppina) la badessa viene accusata di malversazione ed uso del denaro per corrompere alte personalità ecclesiastiche giungendo fino al Cameriere del Papa, favorevoli alla odiata donna Peppina. Ancora le viene mosso l’addebito di aver favorito incontri peccaminosi tra le consorelle, suore di clausura, e fornitori e persino con personaggi “immorali” come “il murario Marangelli” noto alle cronache paesane come un impenitente, instancabile libertino. Non basta: aveva, tra l’altro, comminato punizioni scandalose come «privare di voce attiva e passiva le religiose de Luca ed espellere a viva forza, e punibilmente l’infelicissima oblata Serafina Ramunno la quale è restata disonorata per un delitto non suo.» Questa «opponevasi alle loro maliziose voglie». Altra grave accusa quella di «aver fatto morire disonorata in Napoli la monaca de Martinis. In una parola quel santo luogo è divenuto per opera del demonio una sentina di vizii orribili, d’irreligione, e d’insubordinazione, da cui sparì ogni ordine, ogni virtù, ogni principio di sana morale.»
Gli scandali ormai sono di pubblico dominio? Solo che prima si sussurravano in paese. Ora sono suffragati dalla denuncia di una benedettina e portati a conoscenza del Papa e del Re.
La Sacra Congregazione punisce le benedettine (leggi badesse) vietando di accogliere le educande e le novizie cui darebbero un pessimo esempio di disubbidienza e mancanza di amor cristiano. Il numero delle monache si assottiglia sempre più e rischia di giungere alle 12 unità, limite previsto per l’applicazione della legge sulla soppressione dei monasteri e l’incameramento da parte del Governo Reale.
Le autorità ecclesiastiche eludono questa eventualità che farebbe un grazioso regalo al Regno di Napoli retto dai Borbone. Cambiano idea e offrono alle benedettine di scegliere tra l’accoglimento della consorella Peppina e la somministrazione di un adeguato mantenimento fuori dal Chiostro ma conservando lo status di monaca. Le benedettine scelgono la seconda soluzione. Donna Peppina non ha scelta: deve soggiacere. Il Monastero è salvo.
Fare delle badesse delle eroine femministe reca offesa, per di più post-mortem, a colei che si è strenuamente battuta per la libertà delle donne contro ogni tipo di autorità subendone le conseguenze sulla propria pelle: donna Peppina Bassi. Nell’Ottocento e persino nel Novecento!
La documentazione di quanto esposto (Archivio Diocesano di Conversano e Archivio Segreto del Vaticano) è riportata nel volume di Luigi P. Marangelli, Donna Peppina Bassi monaca per forza, 2016.

 

Luigi P. Marangelli

 

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Scheda bibliografica
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Autore Giuseppe Lovecchio
Titolo Sono tornati
Editore Arti Grafiche Scisci Conversano
Prezzo € 8.00
data pub. novembre 2005
In vendita presso:
Coop. Armida Conversano 
Telefono: +39 080 4959510
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